Il mondo Open: Open Anniversary, parte 1

I muri che trattengono la condivisione delle informazioni e il processo decisionale partecipativo sono stati largamente abbattuti negli ultimi decenni. Molti lettori metteranno in dubbio questa affermazione, basando le prprie paure sui recenti sviluppi della politica, della disinformazione e della disintegrazione sociale. Ma io resto convinto che il nostro mondo sta diventando più aperto, ed esaminerò dove sta andando, in questo articolo in due parti. L’articolo è il culmine di una serie lunga un anno, la “Open Anniversary” sul blog del Linux Professional Institute. Le precedenti uscite della serie sono:
Gennaio (Cultura libera): spiegazione introduttiva per lanciare la serie
Febbraio (Open Source): Open source nella battaglia mondiale COVID-19
Marzo (Open Business): Chi sta costruendo imprese intorno al software libero e open source?
Aprile (Open Government): Dove si incontrano trasparenza, crowdsourcing e software open source
Maggio (Open Knowledge): Open knowledge, the Internet Archive, and the history of everything
Giugno (Open Hardware): Open hardware adatto a sempre più progetti informatici
Luglio (Educazione aperta): I molti modi per affrontare le disparità mondiali
Agosto (Web aperto): Open, simple, generative: Perché il Web è l’applicazione internet dominante
Settembre (Linux): I molti significati di Linux
Ottobre (Software Libero): Passi verso una grande carriera nel software libero e open source
Novembre (Open Access): Open Access ribalta centinaia di anni di ricerca scientifica
Questa prima parte della serie difende la causa dell’apertura contro i critici che la incolpano dei problemi sociali e politici attuali. Cerco di individuare bersagli più appropriati per queste critiche.
La “openness” è pericolosa?
C’è molto da lamentarsi per ciò che vediamo online, apparentemente fuori controllo: teorie di cospirazione dilaganti, la pletora di attività criminali nel “dark web”, e altro ancora. Alcune persone esagerano nelle loro critiche, però. Ho sentito dichiarazioni disinformate e diffamatorie come “Internet sta causando la polarizzazione politica” e “Internet aiuta le bugie a viaggiare velocemente”. Quando valutiamo le tecnologie, dobbiamo pensare attentamente. Di quali precise tecnologie stiamo parlando? Chi le usa e come vengono usate?
Queste domande diventano ancora più complesse perché la combinazione di dispositivi digitali personali e di una rete quasi universale offre anche strumenti alle spie e ai governi che cercano di limitare il comportamento della loro popolazione.
Internet in realtà sta ancora facendo quello che ha sempre fatto, a partire dalla presunta età dell’oro quando riuniva le persone in tutto il mondo e forniva spazi sicuri per discutere di questioni stigmatizzate come il comportamento di gay e lesbiche, il recupero dall’abuso di bambini o dall’uso di droghe, esperienze non neurotipiche, e così via. Così tanti argomenti sono ora parte del discorso pubblico – basta guardare i recenti impegni per affrontare le molestie sessuali sul posto di lavoro, per esempio – che sono stati prima messi in onda nelle comunità internet.
Oggi si va a riunioni in cui la gente dice: “Sono nello spettro autistico” o “Sono vittima di abusi su minori” o “Ho passato cinque anni in prigione” senza vergogna o stigma. Ci deve essere un collegamento qui; ci dimentichiamo di quanto siamo diventati una società più aperta da quando c’è internet.
Internet sta tenendo il passo come risorsa per gli emarginati. Un esempio recente, NativeDATA adatta le informazioni sanitarie ai popoli nativi del Nord America, che soffrono di molti problemi di salute legati ai loro ambienti e al loro status sociale.
Fin dall’inizio, inoltre, c’erano molte prove che internet aveva alcuni angoli piuttosto oscuri. Il commercio illegale, incitamento all’odio e fake news sono problemi noti. I tentativi di separare il bene dal male sono iniziati un po’ di tempo fa – ricordate il Communications Decency Act del 1996 – ma si sono sempre arenati sul dilemma che persone diverse avevano idee diverse su ciò che era buono e cattivo, e alla fine la gente ha capito che non voleva consegnare la decisione a nessuna autorità.
È un tributo allo spirito di Internet agli albori che le maggiori compagnie di social media – mentre investono milioni di dollari per eliminare i contenuti dannosi – mostrano riluttanza a reprimere ulteriormente, e i governi democratici si stanno muovendo con cautela nella definizione degli standard (in particolare il pacchetto Digital Services Act nell’Unione Europea). Per esempio, anche se l’UE vuole che i siti di social media etichettino e rimuovano i contenuti che sono manifestamente pericolosi, i regolatori vogliono trasparenza in tale rimozione e spiegazioni chiare sul perché viene rimosso. I regolatori sono anche sensibili alle richieste eccessive sui siti di social media.
Le cose hanno preso una brutta piega nell’ultimo decennio, per quanto posso vedere, ma il problema non è internet: sono i servizi costruiti da aziende come i motori di ricerca e i social media. Un recente working paper di Suran et al. sull'”intelligenza collettiva” indica il problema. Un’intelligenza collettiva di successo (legata alle idee di crowdsourcing e alla saggezza delle folle) richiede due caratteristiche: diversità e trasparenza. Internet è abbastanza capace di promuovere questi valori, ma i social media lavorano contro.
Per quanto riguarda la diversità, la preferenza da parte dei motori di ricerca e dei social media di visualizzare elementi simili a ciò che si è precedentemente “piaciuto” o cliccato crea le “bolle” così spesso criticate dagli osservatori. E gli algoritmi, naturalmente, sono abbastanza opachi. Le aziende non possono permettersi di essere trasparenti su ciò che fanno perché rivelare gli algoritmi renderebbe più facile conoscere i loro sistemi. Ma il problema dimostra che abbiamo bisogno di qualcosa di diverso dai social media per discussioni serie e “notizie”.
Alcuni sostengono anche che i social media tendono a infiammare il discorso, suscitando paura e odio. Non sono convinto che questo sia vero. La gente sui social media si accalca con gioia per esprimere la propria approvazione per cose positive come nascite, matrimoni, lauree conseguite, premi e promozioni. Diciamo solo che i social media sono progettati per evocare emozioni invece di una cauta considerazione.
Amo i social media. Come miliardi di persone, li uso per tenermi in contatto con i vecchi amici del college, condividere con loro i miei piaceri e dolori, e connettere i miei colleghi con interessi comuni. I social media sono stati progettati per questo e lo fanno in modo superbo.
I social media introducono dei rischi quando le persone li usano per scambiare “notizie”, organizzare l’impegno politico o funzionare come uno spazio pubblico in altri modi. Questi compiti sono meglio serviti da strumenti completamente diversi – online e online – che favoriscono il dibattito ponderato e la ricerca intensiva. Ci sono modelli per questi spazi. Usano alcuni degli stessi meccanismi superficiali dei social media, come i gruppi e le valutazioni. Ma gli spazi pubblici impegnano deliberatamente le persone interessate a lavorare insieme per risolvere i loro problemi. Risultati positivi con un ampio consenso sono il loro obiettivo.
Queste piattaforme possono essere gestite da governi, aziende o non-profit. Un esempio è un partner del Linux Professional Institute, SmartCT nelle Filippine. Per saperne di più su tali soluzioni, consiglio il lavoro del professore di diritto Beth Noveck, per il quale ho scritto e curato diversi progetti. Il suo ultimo libro è Solving Public Problems: A Practical Guide to Fix Our Government and Change Our World.
La seconda parte dell’articolo offrirà un caso di studio sull’apertura e un mucchio di altri esempi.

About Andrew Oram:

Andy is a writer and editor in the computer field. His editorial projects at O'Reilly Media ranged from a legal guide covering intellectual property to a graphic novel about teenage hackers. Andy also writes often on health IT, on policy issues related to the Internet, and on trends affecting technical innovation and its effects on society. Print publications where his work has appeared include The Economist, Communications of the ACM, Copyright World, the Journal of Information Technology & Politics, Vanguardia Dossier, and Internet Law and Business. Conferences where he has presented talks include O'Reilly's Open Source Convention, FISL (Brazil), FOSDEM (Brussels), DebConf, and LibrePlanet. Andy participates in the Association for Computing Machinery's policy organization, USTPC.